Inclusione, confini e ipocrisie culturali: una riflessione sul presente italiano

Inclusione ed esclusione non sono soltanto parole contrapposte: sono categorie che raccontano l’architettura profonda delle nostre società. L’inclusione implica accesso, pari opportunità, riconoscimento. L’esclusione, al contrario, segna i confini dell’emarginazione, dello scarto sociale. In mezzo, c’è un campo di tensione che la sociologia contemporanea ha imparato a osservare con attenzione: quello dei confini.
Un tempo si parlava solo di frontiere fisiche. Oggi, come sottolinea la sociologa Ilaria Riccioni, il discorso si è ampliato: esistono confini tra generi, tra culture, tra discipline, tra reale e virtuale. E non sono mai statici. Si costruiscono, si smantellano, si ricostruiscono. Talvolta scompaiono sulla carta, ma tornano funzionali al bisogno: basti pensare alle barriere invisibili che ostacolano il percorso dei migranti, o ai meccanismi di esclusione culturale e religiosa che, pur in una società formalmente laica, rendono difficile la piena cittadinanza per chi appartiene a fedi diverse da quella maggioritaria.
La religione, infatti, rappresenta un campo di frizione ancora poco discusso. Mentre la Costituzione tutela la libertà di culto, nella pratica le comunità religiose non cristiane – in particolare musulmane – faticano a ottenere spazi, visibilità e pieno riconoscimento istituzionale. L’assenza di una legge organica sulla libertà religiosa in Italia parla chiaro: la pluralità è tollerata, più che realmente accolta. Anche questo è un confine che esclude.
Nel contesto globale, sono nati esempi opposti. Gli studi condotti lungo il confine tra Stati Uniti e Messico mostrano come dalla contaminazione culturale possa nascere una “terza cultura”, ibrida, meticcia, capace di oltrepassare le rigide barriere identitarie. In Europa, in parte, si è assistito a un processo simile: la valorizzazione della diversità individuale ha favorito una nuova ricchezza culturale collettiva. Ma in Italia, questa dinamica resta frenata da atteggiamenti contraddittori.
Da un lato si celebra l’inclusività nelle dichiarazioni pubbliche, nei giorni delle “celebrazioni ufficiali” dedicate ai diritti. Dall’altro, la realtà è ben diversa. I media, schiavi dell’algoritmo, rincorrono l’engagement sacrificando l’approfondimento. La politica, oggi segnata da derive populiste e conservatrici, diffonde una visione distorta e calcolata della “diversità”, piegandola alla logica del consenso. Il risultato è una narrazione ipocrita, che oscilla tra il paternalismo e la paura.
L’ultimo esempio lampante è quello della recente consultazione referendaria, affondata ancor prima di poter aprire un vero dibattito pubblico. Il boicottaggio è stato sistematico: da Roma a Monopoli, il coro dei detrattori ha scelto la via più subdola e meno democratica, quella dell’invito al non voto. Non argomentazione, ma silenziamento. Non confronto, ma derisione. Dai palchi politici alle bacheche digitali, si è fatto passare il messaggio che partecipare al voto fosse inutile, se non ridicolo. Un atteggiamento che conferma quanto il senso critico sia stato sostituito da una comunicazione strategica, svuotata di ogni responsabilità civica.
Come nota Felice Cimatti, il dibattito pubblico italiano ha sostituito il pensiero critico con il marketing ideologico. La parola “inclusività” è stata svuotata e riempita di comode ambiguità: si è passati da “vucumprà” a “immigrazione”, da “razza” a “diversità culturale”, ma senza mai superare davvero lo schema binario di chi può essere dentro e chi resta fuori.
L’inclusione, oggi, è a edizione limitata. Nelle redazioni dei telegiornali, nei talk show, nei palinsesti della TV generalista, la presenza di conduttori, autori, giornalisti provenienti da contesti migratori, disabilità o comunità LGBTQ+ è ancora marginale. Un simbolo perfetto di quanto siamo lontani da un reale cambiamento culturale.
Eppure, come scrive James Clifford, “i frutti puri impazziscono”: nessuna cultura può restare isolata e immobile, pena la propria morte. La vitalità nasce dall’incontro, dal confronto, dalla contaminazione. Ma perché ciò accada, è necessario che anche le strutture sociali – non solo le parole – cambino.
L’inclusione non è una moda da esibire l’8 marzo o il 3 dicembre. È una rivoluzione culturale che chiede pensiero critico, riforme coraggiose e un ribaltamento delle gerarchie del visibile. E che, soprattutto, non può convivere con l’ipocrisia dei confini funzionali: quelli che si spostano, si chiudono o si aprono, a seconda di chi deve attraversarli.
Cosimo Mimmo Panaro

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