Ponti di pace, a partire dal pensiero
In Palestina la guerra è diventata un rumore di fondo che rischia di anestetizzarci. La discussione pubblica si schiaccia su tifoserie: pro o contro Israele, pro o contro Hezbollah. Una struttura binaria comoda per i talk show, disastrosa per la realtà. Nel mezzo, a fare da ammortizzatore delle nostre certezze gridate, ci sono i civili: i più poveri, gli invisibili, quelli che non hanno bunker né PR. Le bombe non chiedono la tessera di partito.
Lo stesso copione lo riconosciamo in Ucraina. Anche lì spesso sembra andare in scena una partita di ruoli: falchi, colombe e comprimari che occupano il proscenio, mentre i negoziati veri restano fuori campo. La geopolitica si fa teatro; la pace, invece, è un cantiere. E nei cantieri servono disegni, calcoli, pazienza. Soprattutto: pensiero. Senza un pensiero all’altezza della complessità, le parole si trasformano in slogan e gli slogan, prima o poi, chiedono sangue per restare credibili.
La domanda è scomoda ma inevitabile: che cosa possiamo fare dalle periferie? Da una città come la nostra, la piccola e ridente Monopoli? Risposta breve: lavorare sui pensieri, sul pensiero. Non è una fuga nell’astratto; è l’unica infrastruttura che possiamo costruire subito e ovunque.
Primo: bonificare il linguaggio. La violenza verbale è la più economica delle armi: costa poco, contagia molto, prepara il terreno a quella vera. Chiediamoci se le parole che usiamo aprono o chiudono. Nelle riunioni di lavoro, in parrocchia, a scuola, sui social: mettere un freno al “noi contro loro” è un atto politico nel senso più alto.
Secondo: coltivare il dubbio operativo. Non per paralizzarci, ma per arginare le semplificazioni. Saper dire “non so”, “spiegami meglio”, “possono essere vere più cose insieme” è già costruire un ponte. Don Tonino li chiamava così: ponti di pace. Un ponte nasce sempre da un progetto condiviso e da una scelta coraggiosa: mettere in relazione rive che non si parlano.
Terzo: organizzare relazioni. Le periferie non sono impotenti se diventano reti. Scuole, associazioni, imprese possono promuovere alfabetizzazione mediatica, ospitare testimonianze di chi fugge dalle guerre, sostenere corridoi umanitari, gemellaggi culturali, micro-borse di studio per studenti palestinesi e ucraini. Non cambia il mondo domani mattina, ma cambia l’aria che respiriamo: e l’aria, col tempo, piega anche le fiamme.
Quarto: esercitare la pressione civica informata. Non serve urlare: basta chiedere con tenacia ai rappresentanti istituzionali scelte verificabili — più diplomazia e meno retorica, aiuti umanitari tracciabili, rispetto del diritto internazionale. La pace non è buonismo: è governance, accountability, monitoraggio.
Quinto: praticare il “secondo pensiero”. Il primo è la reazione; il secondo è la responsabilità. Prima di condividere un post, firmare un appello, commentare “a caldo”, diamoci dieci minuti di silenzio. Il silenzio non è complicità: è la pausa che salva dal precipizio.
Se la guerra vive di semplificazioni, la pace si nutre di complessità. E la complessità si allena. Cominciamo qui, oggi, a Monopoli: parole disarmate, relazioni intenzionali, scelte quotidiane misurabili. Non cambieremo la mappa in una notte, ma potremo dire — senza arrossire — di aver posato una trave in più sul ponte. E i ponti, quando sono molti, diventano strade.
Cosimo Mimmo Panaro