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Il rancore come ideologia: ritratto di un osservatore frustrato

di Flavio Tropiano, Iolanda Galliano, Cosimo Mimmo Panaro

In ogni società in cambiamento, esiste sempre una voce di fondo, stonata, che non propone ma interrompe, non costruisce ma sminuisce. 𝐈𝐥 𝐫𝐚𝐧𝐜𝐨𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐢𝐝𝐞𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐚: 𝐫𝐢𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐨𝐬𝐬𝐞𝐫𝐯𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐟𝐫𝐮𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐨 sempre pronto a commentare, giudicare e delegittimare ogni tentativo di miglioramento. È colui che si erge a giudice dei vissuti altrui, dei redditi altrui, perfino della sopravvivenza altrui — anche se non conosce né l’una né l’altro.
Questo personaggio non appartiene a una classe sociale specifica, né a un partito definito. Vive in ogni contesto in cui il disagio personale viene trasformato in commento pubblico. E prende di mira, quasi sistematicamente, quei gruppi o movimenti che cercano — con tutti i loro limiti — di proporre un’alternativa, di cambiare le cose.
“So io come campano quelli senza lavoro,” dice, con tono sprezzante, convinto di avere il quadro completo della realtà sociale. In realtà, è spesso prigioniero di pregiudizi, di esperienze parziali e di un cinismo che ha smesso di distinguere tra realtà e risentimento.
Il meccanismo del livore
Il livore non è solo rabbia: è rabbia senza elaborazione, senza introspezione, che si appoggia su una certezza comoda — “tutti sono in malafede” — per evitare di affrontare il proprio disagio. La frustrazione, privata di un’elaborazione critica, diventa giudizio morale sugli altri: su chi lavora, su chi lotta, su chi prova a sopravvivere dignitosamente anche senza un contratto stabile.
Non è la rabbia del povero, del precario o dell’escluso in cerca di giustizia: è la rabbia sterile di chi non vuole cambiare nulla, ma non sopporta che qualcun altro ci provi.
Il bersaglio preferito: chi agisce con volontà
Il rancoroso ha spesso un nemico ben preciso: il gruppo “volenteroso e accreditato”. Coloro che, nonostante le difficoltà, mettono in campo proposte, visioni, reti sociali. Possono essere giovani attivisti, collettivi, amministratori locali, associazioni di quartiere. Il loro crimine? Voler fare qualcosa.
In un mondo dove l’immobilismo viene razionalizzato come “realismo”, chi si muove viene visto come illuso o ipocrita. Meglio screditare che confrontarsi. Meglio insinuare che comprendere.
Una cultura del sospetto
Dietro tutto questo si nasconde una cultura del sospetto sistematico. “Avranno sicuramente un secondo reddito”, “chissà chi li finanzia”, “è tutta scena”. Il problema non è tanto l’ignoranza dei fatti, quanto la scelta deliberata di non volerli conoscere. Perché conoscere implicherebbe rivedere le proprie convinzioni, abbandonare la comoda superiorità morale dell’osservatore amaro.
Conclusione: il livore è una forma di resa
Chi vive criticando il tentativo altrui è spesso qualcuno che ha rinunciato a provarci. E allora, il livore diventa una forma di resa travestita da lucidità. Ma il prezzo è alto: si smette di vedere la realtà per come è, e la si interpreta solo come proiezione del proprio fallimento.
Per questo, in tempi difficili, il vero coraggio non sta solo nel proporre soluzioni, ma anche nel resistere al contagio del disfattismo. E nel riconoscere il livore non come verità lucida, ma come uno dei volti più subdoli della rinuncia collettiva.
Non abbiamo bisogno di un pensiero che alimenta altro odio, al contrario visto i periodi difficili che stiamo vivendo , diventa importante formulare pensieri e atteggiamenti positivi e costruttivi utilizzando al meglio un linguaggio fatto di verità e certezze che non necessariamente deve essere lesivo per l’altro.

 

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