Omaggio ad Arbasino dalla Fondazione Pino Pascali

Scrittore, critico, giornalista e poeta è venuto a mancare il 22 marzo 2020. Nato nel 1923 a Voghera, vincitore due volte del Premio Campiello per la letteratura, Arbasino è stato uno dei massimi esponenti del Gruppo 63, movimento letterario avanguardistico al quale aderirono i più importanti intellettuali italiani.

Il 16 settembre 1968, giorno della morte di Pino Pascali, Arbasino così scriveva sul “Corriere della Sera”: “Pino Pascali è morto qualche giorno fa in maniera insensata, incredibile.
Una grossa motocicletta percorre i sottopassaggi del Corso Italia, verso la via Nomentana: sulla sua destra.
Una <<media cilindrata>>, negli stessi sottopassaggi, nella stessa direzione, tenta invece una <<conversione a U>>: improvvisamente, su un senso unico, e in curva. Lo scontro è violentissimo; il motociclista si spacca il cranio. Però, forse perché <<motocicletta>> equivale a sregolatezza mentre <<media cilindrata>> corrisponde a buon senso, gli <<astanti>>, gli <<accorsi>> e la polizia ricoprono con un telo il corpo steso a terra, e dicono: è morto uno zingaro. Pino Pascali vestiva infatti pantaloni neri e cinturone a borchie, stivaletti bassi e maglioni a molti colori. Aveva anche pelle scura, pugliese, e curiosi ricci nerissimi, a cavatappi.
Fosse stato invece vestito come i pittori nella Bohème, quella sera, sarebbe ancora vivo?… Chissà, avesse magari portato almeno una berretta di velluto, un golettone, un pompon, un fiocco, probabilmente qualcuno avrebbe sospettato di trovarsi di fronte un personaggio fra i più importanti e più seri nell’arte contemporanea, conosciuto a Nuova York e a Parigi, lodatissimo da Brandi e da Argan. Sarebbe anche stato soccorso con più sollecitudine?… Comunque, una persona amica passa poco dopo, per caso; vede il telo steso; riconosce la motocicletta; fa di tutto per sollecitare il trasporto a un ospedale; poi, come spesso a Roma, a un altro ospedale: stacca l’assegno indispensabile a mettere in moto le cure… Ma chiunque sa che bisognerebbe trasportare il meno possibile chi ha il cranio spaccato. Pino Pascali aveva un temperamento fortissimo. Si dibatte per una settimana senza mai riprendere coscienza. Poi muore lo scultore forse più dotato della generazione giovane, nella stagione stessa in cui una sala straordinaria (e forse un premio) alla Biennale veneziana gli avrebbe tirato addosso un grosso successo in tutto il mondo. Questa sua sala alla Biennale, presentata dalla Bucarelli, Pascali l’aveva appassionatamente voluta, naturalmente; e non si sarebbe mai sognato di mandare un’opera a un’esposizione, per poi voltarla e rivoltarla secondo gli spifferi dell’umore o della convenienza. Eppure, si era appena riusciti a intravederla, arrivando il secondo giorno della <<vernice>> a Venezia sconvolta, quando tutti gli artisti indignati per le tragiche bastonature in piazza <<coprivano>> i loro pezzi, e la Biennale di quest’anno si trasformava in una Biennale altra,  fantastica rassegna d’imballaggi e di involucri. Un altro scultore morto l’altro giorno, Leoncillo, rivestiva le sue terrecotte con una carta marrone, e gran giri di scotch. Poco più in là, Pino Pascali arrivava con mezzo quintale di fogli di compensato in spalla, un martello, e inchiodava addirittura le porte…
Questa sala era rigonfia di tappeti e di pouffs di pelo acrilico e di paglietta di ferro. Dopo le gigantesche labbra, e creste di tela incollata, dopo gli enormi cannoni e i mostri marini a pezzi – e addirittura il mare – e i <<bachi da setola>> costruiti infilando spazzolini di nylon di tutti i colori, dovevano essere le ultime tappe d’una carriera geniale ormai ricchissima, d’una vitalità apparentemente inarrestabile. Insieme ai legni fantastici di Mario Ceroli, ai tubi e alle gomme di Eliseo Mattiacci, alle crétonnes dipinte e alle cornici di vinilpelle di Cesare Tacchi, ai poliuretani e ai polistiroli, ai plexiglas e perspex di Franco Angeli, Fabio Mauri, Gino Marotta, rimangono fra i monumenti più significativi di un momento struggente nelle nostre arti figurative: i Materiali Inquietanti. Mentre, cioè il movimento pop era una prepotente love story fra un gruppo d’artisti americani e le immagini più profondamente tipiche della nostra epoca (e non di altre epoche…), l’innamoramento di Pascali e degli altri <<nostri>> si appropria infatti – soprattutto – di materiali, non meno profondamente tipici di questo momento…
Sicchè, dopo aver buttato via per sempre pennelli e scalpelli, in un circuito ormai rapidissimo di <<prestiti>> reciproci, non sempre si afferra al volo che cosa venga realmente prima: l’invenzione <<pura>> dell’artista? L’applicazione commerciale del designer? O addirittura le <<strutture primarie>> completamente involontarie create dall’industria delle resine sintetiche?…
L’avevo visto l’ultima volta un mese fa. Filmavo il <<modo di operare>> degli artisti più vivi, nel loro environment abituale; e in pochi minuti, in un immenso garage pieno di ferro e di setole, confezionava un <<plaid>> di lana d’acciaio intrecciata, che chiamava <<Penelope>>, e che poi m’ha regalato. In un angolo era lì la motocicletta. Volevo filmare anche quella. M’ha ribattuto: <<I mezzi di trasporto non fanno parte del modo di operare>>.

Alberto Arbasino

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